Il giorno del Live Aid avevo circa 13 anni. Per mia fortuna sono stato musicalmente precoce e già da qualche anno mi facevo comprare dischi “da adulti”, per cui compresi subito la portata storica di quell’evento, che persino la già allora scalcagnata RAI trasmise, anche se non ricordo se integralmente o a spezzoni. Di quella giornata ricordo bene due cose: la follia di Phil Collins, che dopo aver suonato in UK prese un Concorde (che ai tempi volava ancora) e riuscì ad arrivare in tempo negli USA per suonare anche lì e la performance dei Queen, che conoscevo grazie a Radio Gaga e (fa ridere, a pensarci oggi) la OST di Flash Gordon. Bohemian Rapsody inizia e finisce con quel irripetibile concerto, nato e cresciuto senza social network, senza internet, che vide partecipare il meglio del meglio della Musica (e non solo di quegli anni, proprio di tutta la storia delle sette note).
E tra l’inizio e la fine del film? Beh, c’è la storia, molto verosimile, dei Queen, gruppo nato e “morto” con Freddie, che viene qui ben rappresentato come un talento purissimo cui gli altri, pur ottimi musicisti, devono tutto o quasi. Figlio di innumerevoli vicissitudini produttive, Brian Singer è ancora accreditato come regista ma non ha finito il film in quanto cacciato a metà della produzione, Bohemian Rapsody rappresenta il giusto mix tra biopic e fanservice. La sceneggiatura, a ben vedere, lascia qualche perplessità, specie perchè è proprio la figura di Freddie a risultare la più ambigua (e non solo sessualmente), mentre gli altri tre membri vengono trattati sempre coi guanti bianchi.
Singer (o chi per esso) non osa quasi mai, ma nemmeno sbaglia registro. Non ci sono sequenze particolarmente memorabili (riproduzione del Live Aid a parte, che da sola vale il prezzo del biglietto e anche quella in cui Mercury scopre di essere ammalato, sulle notte di Who Wants to live Forever), nè si calca mai la mano sulle vicende personali di Mercury, che passa senza soluzione di continuità dalla vita familiare “tradizionale”, all’unica figura femminile di riferimento della sua vita, fino a scoprire, accettare e consumare la sua omosessualità, sempre alla ricerca dell’Amore con la A maiuscola, sia esso quello dei partner o dei fan.
Il punto di forza di Bohemian Rapsody è, prevedibilmente, la gigantesca prova di Rami Malek, che pur ostentando qualche chilo in meno e qualche muscolo di troppo, è la copia conforme di Freddie, riuscendo perfettamente a imitarne e riprodurne i gesti, i modi e la parlata (per chi avrà la fortuna di vedere il film in lingua originale). Non meno efficaci sono gli attori che completano la band (in particolare Gwilym Lee/Brian May) ed in generale i valori produttivi sono strepitosi. Su tutto, chiaro, svetta la musica, l’incredibile produzione dei primi quindici anni di vita di una band che scritto, letteralmente, la Storia della musica e la cui “legacy”, per dirla all’americana, perdura tutt’ora. Forse gli aspetti più drammatici della storia personale di Mercury si sarebbero potuti raccontare meglio, con maggiore pathos ed efficacia, ma alla fine il film funziona.
Bohemian Rapsody, come tutti i biopic hollywoodiani, opere che nascono attorno ad un perimetro molto circoscritto, non aggiunge molto al mito di Mercury e dei Queen, può essere un ottimo bignami per conoscere la band per le nuove generazioni, ma l’unica cosa che lascia davvero è una gran malinconia: perchè non avremo mai più un altro Freddie e perchè ogni giorno che passa ci allontana da quegli anni indimenticabili.
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